Il problema della diagnosi secondo il Milan Approach

psico4-150x1501Boscolo e Cecchin (padri del Milan Approach) erano due psichiatri e, come tali, non potevano prescindere dal confronto con il mondo della psicosi e le relative diagnosi. In un articolo stampato nel 1988, sulla rivista Psicobiettivo, affrontano l’argomento e definiscono con precisione l’approccio della scuola di Milano, ponendosi in dialettica con le procedure standard. La Diagnosi psichiatrica tradizionale (DSM, ICD) interessa, infatti, il solo individuo e lo isola dal suo contesto, proprio a causa del linguaggio che viene utilizzato (es: lo schzofrenico, l’anoressica, etc…). Questo modo di etichettare corre il rischio di cronicizzare quei comportamenti che si vorrebbero, invece, curare.
Aderendo alla prima cibernetica (anni ‘70), si è cominciato a guardare al paziente come parte di un sistema più ampio, passando dalla presa in carico dell’individuo a quella dell’intero gruppo familiare. Anche il linguaggio con cui si accompagnava la diagnosi è cambiato, interessando, anziché l’individuo, i pattern familiari, preceduti dalla dicitura “a transazione…” (es: famiglia a transazione schizofrenica, famiglia a transazione anoressica,Con la seconda cibernetica (anni ‘80), si assiste ad una ulteriore svolta epistemologica: l’osservatore fa parte del sistema osservato, per cui si deve abbandonare ogni pretesa di oggettività, il terapeuta descrive solo ciò che vede, non ciò che è. Dalla diagnosi si passa così all’ipotesi, ragionando in termini di possibilità e non di certezza.
Boscolo e Cecchin vissero in prima persona la rivoluzione operata in Italia da Psichiatria Democratica e che portò alla promulgazione della legge 180. Rientrarono dall’America, dove vivevano e lavoravano, chiamati da Mara Selvini Palazzoli, proprio agli inizi degli anni settanta, periodo di grande fermento in Italia. Nel loro lavoro clinico, l’importante intuizione che un modo di deistituzionalizzare fosse proprio l’ipotesi sistemica.
Il processo di ipotizzazione, infatti:
- sfida la diagnosi, non accetta la definizione di malattia, non accetta la definizione di “problema individuale”;
- introduce elementi nuovi, che fanno la differenza, risultando perciò informativi (Bateson, 1972);
- ricolloca le informazioni nel contesto spazio-temporale;
- è attenta all’uso del linguaggio;
- apre a diverse possibilità vs unica realtà;
- è dinamica, crea instabilità (perturbazioni);
- non va mai “sposata”;
- è co-creata: interessa tutto il sistema, connette le varie informazioni;
- rende possibile evoluzioni diverse nel sistema e ne sfrutta le naturali potenzialità;
- è naturalmente ottimista (ottimismo terapeutico).
Nell’articolo (ibidem) si analizzano i passaggi che portano un individuo, da un’iniziale condizione di sofferenza e disagio, alla patologia conclamata e, infine, alla cronicità. Questi comincia con l’avere comportamenti definiti da “cattivo” o da “matto”, che la famiglia non è in grado di cambiare né di comprendere, per questa ragione decide diportarlo da uno specialista. Il medico è chiamato a fare una diagnosi, creando, così, una differenza tra il cosiddetto “paziente designato” e il gruppo dei “ragionevoli” (primo processo di devianza). Il “diverso” non è d’accordo: nega la propria “pazzia”, perde il controllo e, così facendo, conferma l’idea dello specialista. Si inizia con la terapia farmacologica e altri interventi psicoterapeutici, andando a confermare sempre più la diagnosi: si co-crea una realtà molto rigida e potente, tanto che anche il paziente designato comincia a credere nella diagnosi e si comporta come tale (profezia che si auto-avvera).
Il Milan Approach si contrappone alla carriera di uno psicotico cronico proprio perché cerca di:
- creare un clima relazionale positivo, mettere le persone a proprio agio (ingaggiarle, agganciarle), non si pone in competizione (hybris);
- sfidare la diagnosi, es. “Quando ha cominciato a pensare di essere schizofrenico, depresso ecc..? ”;
- restituire alla persona un senso di autoefficacia e responsabilità, es.“Come mai ad un certo punto ha deciso di essere schizofrenico?”;
- chiedere, quando un familiare dice che un suo congiunto è malato (diagnosi), come si è arrivati a tale definizione e che significato abbia per i membri della famiglia;
- mettere in connessione il comportamento del paziente designato con quello degli altri membri del sistema in cui è inserito, es: “Quando x si comporta così, cosa fa y? ”;
- fare ipotesi per rendere le proprie definizioni provvisorie;
- usare le domande circolari e riflessive (Tomm, 1991), basate cioè sulle retroazioni (feed-back) dei soggetti, che favoriscono l’insorgere di nuove informazioni, e rendono il pensiero più flessibile e aperto al cambiamento;
- usare la connotazione positiva, per dare senso ai comportamenti, anche quelli più disfunzionali, accettare gli individui per ciò che sono e creare un clima relazionale positivo, in cui sia possibile far nascere il cambiamento;
- creare instabilità nel sistema (perturbazioni) e favorirne le sue naturali evoluzioni.
Mettere da parte la diagnosi non significa negare il disagio e la sofferenza dell’individuo, e quindi la malattia, così come non significa rinunciare ai farmaci e all’ausilio di altri esperti, specie nel caso di patologie gravi e/o con basi neurologiche. L’atteggiamento depatologizzante è una forma mentis che permette al terapeuta di andare al di là del sintomo e di guardare ciò che ancora funziona: le risorse o, come direbbe la Walsh (2003), la resilienza del sistema. Spesso, sottolineano Boscolo e Cecchin (ibidem), la malattia, specie se organica, prende il sopravvento su tutto il resto, blocca il sistema e impedisce di prendere consapevolezza di ciò per cui vale ancora le pena di vivere e guardare al futuro.
Connotare positivamente i sintomi e le persone implicate non vuole essere un atteggiamento lezioso e poco autentico: il terapeuta deve essere coerente con ciò che dice ed essere in grado di comunicarlo in modo credibile. Gli aspetti non verbali del linguaggio sono importanti tanto quanto i verbali e, come ci ricordano Watzlawick, Beavin, Jackson (1967), “è impossibile non comunicare”. L’uso della connotazione positiva richiede allenamento ad un nuovo un modo di pensare, diverso dalla nostra cultura aristotelico- cartesiana e più vicino al pensiero orientale e degli Indiani d’America (Dell, 1980). È un linguaggio orientato al processo, al cambiamento e all’assenza di giudizio. Requisiti importanti per chi vuole operare in modo terapeutico.
Il Milan Approach può, quindi, contribuire a rendere più sopportabili i paradossi connessi al campo della psichiatria e della salute mentale? È una modalità di psicoterapia che può riscattare la psichiatria, curandola dal di dentro? Apprendere e interiorizzare tale modello vuol dire potenziare le proprie capacità di intervento e quindi implica un’acquisizione di responsabilità pienamente in linea con quanto l’OMS ha compendiato, nel 1988, nella cosiddetta “Carta di Ottawa”.
“La promozione della salute è il processo che mette in grado le persone di aumentare il controllo sulla propria salute e di migliorarla […]. La salute è quindi vista come una risorsa per la vita quotidiana, non è l’obiettivo del vivere. La salute è un concetto positivo che valorizza le risorse personali e sociali, come pure le capacità fisiche. Quindi la promozione della salute non è una responsabilità esclusiva del settore sanitario, ma va al di là degli stili di vita e punta al benessere […]. I prerequisiti e le aspettative per la salute non possono essere garantiti solo dal settore sanitario. Quel che più conta è che la promozione della salute richiede un’azione coordinata da parte di tutti i soggetti coinvolti: i governi, il settore sanitario e gli altri settori sociali ed economici, le organizzazioni non governative e di volontariato, le autorità locali, l’industria e i mezzi di comunicazione di massa. Le persone di ogni ceto sociale sono coinvolte come individui, famiglie e comunità. Per laricerca della salute, i gruppi professionali e sociali e il personale sanitario hanno l’importante responsabilità di mediare tra i diversi interessi presenti nella società. Le strategie e i programmi di promozione della salute dovrebbero essere adattati ai bisogni locali e alle possibilità dei singoli paesi e regioni, in modo da tenere conto dei diversi sistemi sociali, culturali ed economici.”

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