Diario di un pellegrinaggio in Terra Santa.

<Ai miei compagni di viaggio>.

Un pellegrinaggio in Terra Santa non è un semplice viaggio: è innanzi tutto un’esperienza esistenziale.
La Bibbia dice che Gerusalemme fu costruita da Dio in opposizione a Babele, che invece fu costruita dagli uomini per se stessi. Per questa ragione rappresenta “l’occhio del mondo” ed è la sede delle tre grandi religioni monoteiste: Cristianesimo, Ebraismo e Islam. Gerusalemme è, quindi, la città degli uomini che, rinunciando alla loro hybris, decidono di affidarsi a un’entità superiore e infinita. Simbolo della Custodia francescana di Terra Santa è la croce cosmica, o croce di Gerusalemme: una croce greca, cantonata da altre quattro croci più piccole. Il numero quattro, che rimanda ai quattro punti cardinali e all’infinito sta a significare la presenza cosmica della potenza divina, oltre che ricordare la passione di Cristo e il suo dominio universale: le cinque croci (una grande e quattro piccole), infatti, simboleggiano le cinque piaghe di Gesù sulla croce.
Non occorre essere credenti per subire il fascino di questa città. Gerusalemme incarna la storia del Mondo Antico: le sue culture, le sue contraddizioni. Gerusalemme è un caleidoscopio di sensazioni, idee, culture in costante equilibrio dinamico, pronte ad essere continuamente perturbate. Gerusalemme è la città in cui vizi e virtù umane vengono amplificati in modo esponenziale. Un luogo in cui si sperimenta un grandissimo senso di impotenza, di finitudine, ma anche di pietas per ciò che è la natura umana, con tutte le sue contraddizioni ed incoerenze. È questa pietas che mi rimane nel cuore, ora che sono ritornata a casa, ed è questa pietas che mi fa venire voglia di scrivere, da laica, queste memorie. Credo possano essere uno spunto interessante anche per un non credente e per chi, come me, lavora nel sociale.
Il pellegrinaggio è iniziato ad Haifa, al Monte Carmelo, sede di un santuario mariano, in cui si trova la grotta di Elia, il profeta caro a tutte e tre le religioni, emblema del monoteismo e della lotta verso l’idolatria. Di fronte al santuario un monumento per ricordare che questo luogo non è solo l’ecumenico incontro di tre grandi credi, ma rappresenta anche i conflitti, le lotte e le stragi per appropriarsene.
Si prosegue per Nazareth, il villaggio di Maria e di Giuseppe, in cui ha sede la Basilica dell’Annunciazione: la Chiesa delle chiese. L’Immacolata Concezione, al di là degli aspetti più mistici e religiosi, mostra un’idea di famiglia non convenzionale, quasi scandalosa. Maria rimane incinta prima di sposarsi: è quindi socialmente compromessa, se Giuseppe non riconosce il bambino. Maria, donna fuori dal comune, accetta di stare in una situazione scomoda e pericolosa per lei. Giuseppe, per amor suo e del bambino che porta in grembo, decide di credere alla verginità di Maria e alleva con amore il piccolo. Si parla poco di quest’uomo nella Bibbia: si narra, nei vangeli apocrifi, che Gesù tornò a Nazareth per riabbracciare il suo “buon vecchio”, in punto di morte, e tributargli tutto l’amore e la riconoscenza che si ha per un padre. Per questo mi piace considerare S. Giuseppe l’emblema della genitorialità adottiva e la Sacra Famiglia quello delle famiglie allargate e non sempre legittimate, nemmeno dalla stessa Chiesa Cattolica.
Salendo sul Monte Tabor, “l’Alto Monte” citato nel Vangelo, si scorge un santuario circondato da alberi di pepe e ulivi: qui avvenne la Trasfigurazione di Gesù davanti ai discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni. Il miracolo della Trasfigurazione è la metafora della “guarigione”, intesa come progressivo raggiungimento di benessere, proprio come la intende l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità). È, quindi, un inno alla speranza e alla fiducia nelle nostre parti buone, potenzialmente divine, un ottimismo terapeutico rispetto a quella che è, invece, la finitudine della natura umana. Questo atteggiamento è di per sé miracoloso: noi, operatori del sociale, non dobbiamo mai dimenticarcelo.
Scendendo a Cana di Galilea si ricorda, invece, il primo miracolo di Gesù: la trasformazione dell’acqua in vino durante uno sposalizio. Miracolo incoraggiato da Maria, a cui obbedisce da figlio, accogliendo le sue sollecitazioni a mantenere viva la festa. Non è l’unico evento a cui parteciperà Gesù, i farisei lo accusavano di essere troppo “compagnone” e di frequentare brutti “giri”. Questo episodio ci mostra un Dio fatto uomo che gioisce con gli altri uomini e che sa divertirsi. Questo è un aspetto importante che viene preso in considerazione anche nel campo della salute mentale, accanto alla capacità lavorativa (funzionamento sociale). Gesù rappresenta, quindi, la persona “sufficientemente sana”, funzionale, integrata sia nella capacità di gioire, ma anche nella capacità di commuoversi ed emozionarsi. C’è un santuario a Gerusalemme, sul Monte degli Ulivi, che ricorda il “Dominus Flevit”, ossia le lacrime di Gesù per la sua città e per le sorti disgraziate degli uomini, incapaci di capire il linguaggio dell’amore. Non è facile incontrare un Dio che piange. Queste lacrime ci dicono che si è veramente uomini quando si è in grado di commuoversi, la capacità di emozionarsi rende umani e divini allo stesso tempo. La compassione è un sentimento importante perché permette di uscire da se stessi e comprendere i punti di vista altrui, rendendo possibile il rispetto per le differenze, il dialogo e l’integrazione tra le culture. Sul Monte Hattin sorge il santuario francescano delle Beatitudini, in memoria del discorso che Gesù fece alla gente che giungeva per ascoltare i suoi insegnamenti. Le Beatitudini sono quindi una dimostrazione di vicinanza e d’incoraggiamento per le persone che soffrono.
Gesù è stato un guaritore, un medico del corpo e dello spirito, ma al di là dei miracoli che ha compiuto, trovo sia interessante soffermarsi su ciò che diceva, da “medico-santone”, ai suoi “malati”. Giunto alla Piscina Probatica, alle cui acque una credenza giudaica attribuiva poteri terapeutici, un uomo disabile si lamenta perché non riesce a toccare le acque miracolose, perché nessuno lo aiuta e tutti gli passano davanti. Gesù allora gli chiede: “Ma tu vuoi guarire? Allora alzati, prendi la tua barella e vai!”, ossia: “Prendi ciò che sei, non lamentarti e vai avanti! Non sperare in grandi trasformazioni, impara a ottimizzare ciò che sei… ma, soprattutto, sei in grado di rinunciare ai vantaggi della tua condizione di malato?”. Il vero miracolo non è avere qualcuno che ci risolve i problemi, ma avere il coraggio di portare la propria “croce”, la propria “barella”, guardando non solo alle cose che mancano, ma anche alle nostre intrinseche potenzialità. Se crediamo di poter camminare, anche se zoppicando e a passi incerti,riusciremo anche noi a vivere e non semplicemente esistere.
Chi si lamenta, avrà sempre dei motivi per lamentarsi e non vivrà mai bene, nemmeno quando potrebbe farlo. Nel campo della salute mentale, ma non solo, ci troviamo spesso a chiedere a nostri pazienti: “Ma tu vuoi guarire?”, perché non è sufficiente l’intervento dello psichiatra o dello psicologo per aiutarli a stare meglio. I medici solo un tramite perché ciò avvenga e non c’è miglioramento se non c’è reale motivazione al cambiamento. Spesso siamo così concentrati a voler cambiare le cose, che ci impediamo di capire perché sono quello che sono. Le malattie spesso si cronicizzano perché offrono al paziente designato alcuni “vantaggi” e lo deresponsabilizzano. Restituire la dignità al paziente significa essere utili, non dare aiuto. Nessuno può caricare “la nostra barella” per noi.
Riconosco in queste riflessioni molti presupposti dell’approccio sistemico: essere umili (rinunciare alla propria hybris o supponenza), trattare con dignità ciascuna persona, semplicemente per il fatto che esiste, cercare di capire prima di giudicare, non essere rigidi e manipolatori, ma rispettosi degli individui e delle situazioni.
Ho definito il pellegrinaggio in Terra Santa un’esperienza esistenziale per tutte queste considerazioni, ma anche per la situazione attuale che questo paese sta vivendo. Gerusalemme è divisa da muri e posti di blocco, le divisioni, inique, provocano odio e rancori: chi ha il potere lo esercita a discapito del più debole. Quest’ultimo reagisce all’odio con odio, in un gioco senza fine che produce solo morte e distruzione. In questi luoghi, santi e maledetti allo stesso tempo, non si può che stare in silenzio, come Gesù nel deserto, perché è solo nel silenzio che si può esercitare la propria capacità di ascolto e, forse, alimentare sentimenti di pace e perdono: la voce del silenzio, si dice, è la voce di Dio.
Un piccolo miracolo, in questa “Babele”, è il  Caritas Baby Hospital, unico ospedale pediatrico della Cis-giordania che, nonostante i muri e le divisioni, riesce a curare e sostenere i bambini palestinesi di tutte le razze e religioni, nel rispetto delle differenze e dei credi di ciascuno. I muri e lo stato di isolamento a cui sono sottoposti i Palestinesi favoriscono i matrimoni tra consanguinei e le malattie genetiche sono molto diffuse. Le donne continuano a rimanere incinte perché è solo il loro status di madri che le legittima di fronte alla società, ma hanno altissime probabilità di generare altri figli malati. Queste suore e questi medici, senza giudicare, fanno quello che possono per garantire la qualità della vita di questi bambini. Il loro preziosissimo lavoro mi ricorda la parabola dei semi di senape: “Il regno di Dio è come un granellino di senapa che, quando viene seminato, è il più piccolo di tutti i semi che sono sulla terra; ma appena seminato cresce e diviene più grande di tutti gli ortaggi e fa rami tanto grandi che gli uccelli del cielo possono ripararsi alla sua ombra.” (Marco 4, 30-32). Questo è il fascino miracoloso della Terra Santa.

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